Ed è lì tra fango, giunchi e acquitrini con un cielo plumbeo o terso, riflessi tra una pozza e l’altra di un immenso campo gelido, che si riempie di gioia il cuore del cacciatore quando davanti la ferma del proprio ausiliare ascolta il beffardo “gneck” e osserva tra la bassa vegetazione un movimento, forse poco più di una percezione, che finché non si staglia contro lo sfondo non rimane che un’idea, un desiderio.
Il colpo ovattato dalla natura del territorio, un ciuffetto di piume e il riporto dello scodinzolante Fido, fanno risvegliare dal torpore il trasognante cacciatore.
Appartenente alla famiglia degli scolopacidi, il "Gallinago Gallinago", più comunemente conosciuto col nome di beccaccino è una specie migratoria diffusa in Italia da Nord a Sud, Isole comprese, durante i periodi di passo.
Sulla caccia al beccaccino è stato scritto e detto molto, specie nella letteratura della prima metà del ‘900, quando il selvatico risultava molto diffuso nel nostro paese grazie alla vasta e uniforme presenza di acquitrini e terreni paludosi.
Nonostante una popolazione europea consistente, la presenza del beccaccino in Italia, specie tra fine degli anni ‘90 e gli inizi del 2000, è risultata sporadica e comunque non uniforme per tutta la penisola. Infatti, le poche zone umide rimaste e pochissime quelle accessibili all'attività venatoria, hanno compromesso e compromettono la riuscita di una caccia dal sapore unico.
Si potrebbe tranquillamente asserire che la fortissima riduzione della presenza del beccaccino, è stata causata soprattutto dalle ampie bonifiche dei terreni paludosi, dall'agricoltura intensiva, dal cospicuo uso di diserbanti e pesticidi che hanno eliminato dal suolo tutta quella serie di insetti e invertebrati di cui lo scolopacide si ciba, dall'antropizzazione e urbanizzazione di ex zone umide, dalla cementificazione di canali e corsi d'acqua.
Però, nonostante le difficoltà determinate dai pochi habitat e penuria di selvatici, negli anni, pochissimi appassionati hanno mantenuto intatta la tradizione della caccia al beccaccino, ostinandosi ad allevare e addestrare ausiliari dedicati a questa caccia il cui esercizio necessita l'uso di ausiliari di alto livello.
Per praticare la caccia al beccaccino, infatti, occorrono essenzialmente, un cacciatore con spiccate doti venatorie che sappia riconoscere quale sia il momento migliore e su quale terreno andare a cercare il selvatico, abile nello sparare; un ausiliare, non importa di che razza (anche se quelli a pelo ruvido e/o lungo sono preferiti visto le condizioni ambientali dove si caccia) di eccelse qualità venatorie e fisiche, provvisto di doti comportamentali e olfattive di alto livello.
Oggi, troppo spesso e tristemente, vista la situazione ambientale e l’alto numero delle aree precluse alla caccia, tocca sperare in un periodo particolarmente piovoso, in modo che si creino quelle condizioni favorevoli e necessarie alla presenza degli scolopacidi.
Il parziale allagamento dei campi, ad esempio, potrebbe ricreare un habitat di vitale importanza per la presenza di questi meravigliosi e indecifrabili selvatici, che durante i periodi di passo, ritrovando le condizioni ambientali favorevoli, diventano più inclini a fermarsi sul territorio deliziando il cacciatore, appassionato di questa attività, con la sua presenza.
Quando si pensa alla caccia tardo autunnale ed invernale nelle marcite, negli acquitrini, o a ridosso delle paludi non si può non pensare alla caccia al beccaccino, la saetta alata.
Dopo un ottobre ancora troppo caldo ma con qualche scroscio d‘acqua che abbia saputo ben inzuppare il terreno e riempire i canali e qualche pozzanghera, l’appassionato di caccia al beccaccino attende il primo abbassamento delle temperature, la tramontana e la luna nuova di novembre per sperare di incontrare tra marcite e incolti, o di fianco allo sporco di qualche canale, il selvatico che per eccellenza mette a dura prova le qualità dei cani da ferma e le doti venatorie e di mira del cacciatore.
Una caccia che, dissociata dall’ottica della quantità del carniere e dei numeri, ma legata ancora alla qualità, alla struggente bellezza dell’ambiente in cui si svolge e all’unicità che la contraddistingue, riesce a rinnovare emozioni e sensazioni che si tramandano tra le nebbie, è il caso di dirlo, del tempo, mantenendo intatta la tradizione e le stesse percezioni raccontate dai nostri padri e di cui è colma la letteratura venatoria.
La fine di ottobre eccezionalmente piovosa aveva lasciato spazio a un novembre fresco e con scarse precipitazioni, sufficienti però a mantenere umidi i terreni e stabile il livello d’acqua delle pozze e dei canali che si riversavano nei pantani.
Si era così creato un habitat umido eccezionale per praticare la caccia di palude, soprattutto ai beccaccini e alle piccole anatre e uccelli neri nei canali.
Era, questa, una caccia che mi aveva sempre appassionato da quando, bambino, mio padre mi portava con sé a sguazzare con gli stivali nelle pozzanghere e nel fango, dove tante volte scivolavo tornando a casa con i calzoni totalmente fradici, gli stivali pieni d’acqua e nelle orecchie la ramanzina di mio padre che a causa mia aveva dovuto sospendere la cacciata.
Ma fu nel periodo adolescenziale, quello che precede di qualche anno l’agognata licenza di caccia, che grazie ad una Kurzhaar, Lola si chiamava, nipote del famoso Tin Tin du Mas de la Combe, scoprì la magia di questi ambienti ricchissimi di vita e di selvatici, una varietà biologica a cui non ero abituato avendo assistito solo alla caccia al coniglio, quaglia, beccaccia e qualche sporadica coturnice e lepre.
Quando presi il porto d’armi, Lola era ormai abbastanza adulta, quindi preferivo non portarla in palude prima di un certo orario. Era molto in gamba con questi selvatici, li sapeva trattare molto bene cercando di non innervosirli e consentendomi sempre di tirare a una distanza ottimale.
Quelli che la kurzhaar preferiva erano gli scolopacidi che pasturavano nelle radure tra il falasco e l’erba alta o in quelle parti di gran turco marcite.
Li metteva in ferma già mentre si trovava all’esterno consentendomi di mettermi in una posizione ottimale, subito dopo lei entrava nel folto con passo lieve, una volta dentro li fermava mentre attendevo fuori che volassero a tiro.
So che non era una pratica molto ortodossa per la caccia al beccaccino, ma era molto divertente.
Un giorno mi recai in un posto che avevo visionato bene in diverse occasioni, un’ampia pianura di terra scura e grassa che si estendeva per ettari contrapposta alle bianche colline di creta confinanti da un lato e sui cui fianchi crescevano ricchi giunchi, timo, lentisco olivastri.
La pianura, invece, era ampiamente coltivata, appezzamenti di diverse dimensioni erano delimitati da una fitta rete di piccoli canali che convogliavano le acque piovane verso canali via via più grandi che si riversavano in un bacino di raccolta.
Quell’anno l’intensità delle piogge era stata talmente abbondante e immediata che il risultato fu che l’acqua non scorreva più ed ettari di coltivazioni di peperoni, melanzane, granoturco, erba medica e sesamo rimasero in mezzo all’acquitrino marcendo del tutto.
Grande danno per l’agricoltura, ma fantastico ambiente all’insegna della biodiversità per gli amanti di quei luoghi e di quel tipo di caccia.
Così, indossati gli stivali a coscia e assicurandomi di avere una buona scorta di “autan”, mi catapultai nel primo giorno utile con un cielo leggermente coperto ma non piovoso, caratterizzato da un mite vento di levante e scirocco che aumentava l’umidità, nella pianura bassa del mio paese, che in quell’occasione era tornata ad essere un’unica grande palude.
Il “Margio”, così lo chiamiamo dalle mie parti, era tornato per quell’anno un’immensa distesa paludosa come lo era stata prima della bonifica.
Preferì iniziare la cacciata col sole già alto per due motivi, la prima era di non far prendere troppo freddo al cane, la seconda era che i selvatici sarebbero stati in pastura o a riposo dopo la pastura e sicuramente molto più calmi e inclini a lasciarsi fermare.
Lola, nonostante non fosse alla prima esperienza con l’umido del terreno, si irrigidì un attimo al contatto col freddo fango, ma poi ruppe subito gli indugi e iniziò a fendere quella vastità di falasco, giunchi, canneruggiole e coltivazioni allagate con l’avidità di una cucciolona.
Iniziarono subito delle guidate e ferme al limitare dei canali stracolmi, dove le gallinelle si crogiolavano al sole pallido mentre pasturavano, e iniziarono a lanciare i loro gridolini di allarme, ma oggi non era la giornata per loro perché quello che cercavamo erano le saette alate.
Avanzavamo all’interno dell’enorme depressione. Ero riuscito a tenermi su una stradella di pietre dove si poteva camminare più agevolmente, la kurzhaar spaziava da un lato e dall’altro ma di beccaccini neanche l’ombra.
Giungemmo in un punto dove la stradella veniva inghiottita dalle lunghe canne di un folto canneto, da un lato, mentre dall’altro costeggiava una giallissima piantagione di mais, Lola mi camminava poco davanti e si fermò rallentando il passo con la testa alta e il collo muscoloso contratto.
Imbracciai la mia doppietta Oxford con canne da 71 cm *** in prima canna e * in seconda, bigrillo, quando alla mia sinistra uno “gneck” attirò l’attenzione e vidi sfrecciare delle ali falcate che volavano rasenti ai giunchi, lasciai partire il colpo.
Non ebbi il tempo di bearmi del ciuffetto di piume che la MB con l’8 aveva provocato che mi trovai sommerso da una moltitudine di beccaccini che partivano da ogni dove e volavano in tutte le direzioni con uno sgnecco continuo che risuonava sempre più come uno sberleffo, lasciandomi incredulo.
Anche la cagna, sempre ferma, guardava quella moltitudine alata come non l’avevamo mai vista.
Recuperato quello abbattuto, cercammo di andare a ribattere quelli volati via e rimessisi non poco lontano.
La maggior parte si trovavano all’interno di una coltivazione di peperoni, dove alberelli scheletrici avevano abbandonato tutte le foglie e si sforzavano di tenere su ancora qualche frutto ormai rovinato.
Appena entrati subito due o tre scolopacidi volarono via. Ma subito la bracca si prodigò in una ferma schiacciata, riallineandosi subito dopo.
Nonostante il terreno molto soffice, appiccicoso e i miei 90 e passa chili di peso, riuscì ad avvicinarmi e poco più avanti un doppio “gneck” rapì la mia attenzione, vidi due pance bianche che si stagliavano contro quel muro marrone di fango e la prima canna della doppietta con la Tricolor, tuonò nuovamente mentre plastico, uno dei due beccaccini, reclinava indietro il capo.
A dimostrazione del fatto che molti erano selvatici appena arrivati, ispezionando bene quel campo riuscimmo a recuperare altri tre beccaccini che, nonostante i colpi esplosi, erano restii a partire.
Le emozioni si susseguirono tutto il giorno per la grande presenza di selvatici, la bravura della mia ausiliare e l’ottima prestazione delle munizioni, ma a un certo punto decisi di non sparare più, avendo racimolato un carniere di rispetto, godendomi solo lo spettacolo di ferme (furono le ultime a dire il vero per la mia kurzhaar) e voli continui.
Ero abituato alla bravura di questo mio ausiliare ma non avevamo mai avuto una giornata a beccaccini come questa.
In quegli anni utilizzavo come prevalente fucile da caccia il mio semiautomatico Beretta 1200F cal.12 in polimero, uno dei primi a massa inerziale, su cui montavo una canna Benelli 71 cm * quando lo utilizzavo per la caccia al pantano, ma per la caccia al beccaccino avrei preferito avere una canna ** o una *** stessa lunghezza.
Infatti, per la caccia a questo furbissimo e diffidente scolopacide, serve avere delle canne piuttosto lunghe almeno da 67 cm, che consentano una migliore impostazione di mira al cacciatore e che diano la possibilità di guadagnare qualche metro nella portata utile dell’arma che deve avere una strozzatura minimo di 5/10 per mantenere una buona compattezza della rosata, visto l’abitudine del selvatico di involarsi quasi sempre a distanza.
Perciò, se potevo, “rubavo” dall’armadietto la doppietta Oxford Renato Gamba, sempre in cal.12, di mio padre, specie se le giornate non erano piovose, che grazie alle canne lunghe, ad una piega molto tesa e ad una strozzatura ridotta, si rivelava un’ottima arma nei tiri medio/lunghi e nel tiro di stoccata, fornendo anche un‘ottima visuale grazie alle canne giustapposte.
Per il tipo di selvaggina in questione, per il suo modo di volare e di palesarsi al cacciatore, in seguito mi sarei accorto di quanto potesse essere utile anche il sovrapposto che per la conformazione stessa dell’arma agevola molto nei tiri su selvatici che si incolonnano repentinamente o che prendono quota in poco spazio.
Un’arma, questa, che consiglierei forse più dell'automatico scegliendo magari un calibro inferiore al 12 per la leggerezza dell’arma e la rapidità di imbraccio.
Ma a mio modo di vedere, l'arma migliore nella caccia al beccaccino rimane la doppietta in calibro 20 o 28, specialmente con una piega tesa, in questo caso si rendono d’obbligo canne almeno da 71 cm e con le strozzature di 5/10 in prima canna e 7 o 11/10 in seconda.
Per quanto riguarda le munizioni la difficoltà forse sta più nell’individuare quella che riesce a garantire buone prestazioni in ambienti freddi e comunque molto umidi.
Personalmente ho sempre evitato le cariche eccessive di piombo e nella caccia col cane al beccaccino utilizzavo di prima canna, col cal.12, quasi sempre una cartuccia 7 ½ 28gr da tiro al volo che si rivelava ottima in condizioni di forte umidità, le alternavo con la Mb caricata in bossolo di plastica bianco pb.8 della B&P, ma non disdegnavo di utilizzare le MB Tricolor nonostante l’involucro in cartone.
Quando c’erano giornate particolarmente calde potevo utilizzare anche una GP sempre piombo 8 che si rivelava un’ottima ed efficace munizione per il primo colpo. Il secondo colpo, o la seconda canna, era sempre affidato ad una MB ma con pb 7.
Tale munizione si rivelava ottima in condizioni di umidità o quando soffiavano venti tesi e umidi.
Il semiautomatico in questa caccia difficilmente offre il vantaggio del terzo colpo, in quanto il selvatico che si invola già lungo, essendo molto veloce, si allontana subito ai limiti della portata utile dell’arma, rendendo il terzo colpo, se i primi due sono andati male, praticamente inutile.
Tuttavia, considerando che in tale ambiente è facile imbattersi anche in anatre o altri uccelli più coriacei, il terzo colpo dell’automatico potrebbe essere sfruttato per munizioni con grammature maggiori e numerazioni di piombo più grosse.
Lo scorso anno ho avuto la possibilità, sfruttando particolari condizioni ambientali e climatiche che si sono presentate, di dedicarmi per un periodo ai beccaccini.
Questa volta decisi di portare come arma il mio sovrapposto Rizzini canne 71 cm ***/* strozzatura fissa in calibro 28.
Come munizioni di prima canna ho utilizzato la Extra Rossa pb.7 ½ 22 grammi, e di seconda la Extra rossa Hv 26 grammi 7 ½.
I luoghi erano rimasti sempre quelli di quando ero ragazzo, grosso modo, mancava solo un valido ausiliare specializzato per quel selvatico e la presenza massiccia dei selvatici di quella giornata memorabile.
Nonostante tutto la presenza dei selvatici fu discreta e il cane che avevamo col mio accompagnatore, un setter bianco nero di bella presenza e con un ottimo naso, ma non abituato a questi selvatici, cercò di recuperare subito gli errori commessi ai primi approcci.
Ai molti sfrulli iniziali, seguirono inizialmente ferme incerte che divennero sempre più solide, consentendoci di effettuare alcuni bei prelievi.
Considerando che ci stavamo confrontando con selvatici arrivati da poco sul territorio, la munizione che avevo scelto per la prima canna si era rivelata sufficientemente veloce ed efficace, a raggiungere una distanza media, producendo una rosata concentrata che mi consentì di effettuare un paio di ottime prime canne, mentre la Hv col piombo 7 ½ di seconda si rivelò una certezza per l’unico recupero fatto di seconda canna.
Concludemmo così una splendida giornata da incorniciare nell’album dei nostri ricordi.
In bocca al Lupo!