Sarà colpa del sopraggiungere dei secondi anta ma mi capita che sul finire della stagione di caccia appena trascorsa sono stato pervaso da un forte sentimento di insofferenza verso i miei simili.
Così, dopo aver ricercato le aree più desolate e meno battute e avendo, nonostante tutto, raggiunto il mio personale traguardo di carniere complice un’annata più che discreta, a un certo punto mi prende anche questa “insana” stanchezza claustrofobica nel frequentare i boschi e i fondi delle cave e i “raffi”, profonde fenditure che ti catapultano venti, trenta metri sotto il livello del piano soprastante, umide “vagine” naturali ricche di vita, humus, cespugli di varie essenza e dimensioni, macchia mediterranea e lecci. Ma, scoprirò presto, non sono frequentati solo dalla beccaccia.
Il venerdì pomeriggio dopo le 18, appena spento il pc con le fatture del mio lavoro, mi telefona l’amico Massimo che mi chiede se voglio partecipare ad una battuta a cinghiali per l’indomani; in altri momenti mi sarei defilato in quanto non ho mai praticato quella caccia e non ne provo grande attrazione, ma sulla scorta del sentimento dominante da qualche giorno e conoscendo il tipo di impostazione venatoria dell’amico in questione, accetto quasi volentieri sperando in una boccata d’ossigeno venatorio rigeneratore.
Da almeno un ventennio il cinghiale in Sicilia è sempre più presente, a volte anche troppo, e pensare che da ragazzino, leggendo i resoconti su Diana, ritenevo impossibile che questo selvatico si potesse ben ambientare sull’isola, vuoi per il clima, quasi arido, vuoi per la scarsità di acqua disponibile.
Mai considerazione fu più sbagliata. Il suide è stato in grado di adattarsi perfettamente alle condizioni climatiche, riuscendo a sfruttare al meglio le risorse che la natura e anche l’uomo, se pur indirettamente, gli hanno offerto.
Così ha proliferato e si è ambientato dapprima in quei luoghi inviolabili che sono i parchi e le forestali, di seguito allargandosi a raggiera su tutto il territorio isolano giungendo fino alle coste.
L’impatto sul territorio è stato devastante, a farne le spese sono state le colture in primis, ma anche alcune specie selvatiche autoctone che hanno subito un effetto negativo dalla sua presenza, parlo delle coturnici, dei conigli e delle lepri.
Perché ho sempre evitato questo tipo di caccia?
Il primo motivo è che odio stare fermo per ore ad aspettare che passi un selvatico; il secondo, forse il più importante, è che ho sempre avuto paura del cinghiale come selvatico; terzo, non mi sono mai fidato molto delle battute con più fucili perché ho sempre timore che la frenesia di tirare il grilletto prenda il sopravvento sulla ragione.
Ma nell’organizzare la giornata dell’indomani il mio amico mi rassicura sul fatto che saremo solamente in tre lui, io e suo padre. La cosa mi alletta anche se l’infilarmi dentro lo sporco a cercare maiali selvatici non mi rende molto tranquillo ma la voglia di provare sopraffà qualsiasi remora.
La sera preparo l’abbigliamento necessario per affrontare la giornata di caccia. Considerando che si tratterà comunque di una caccia in movimento e non di appostamento, non mi distacco molto da ciò che indosso nelle giornate di caccia alla beccaccia.
Quindi i miei fidati scarponi, un buon paio di pantaloni elasticizzati e traspiranti, perché tendo a sudare molto, le immancabili ghette in cuoio, una maglia a manica lunga del tipo compressor, su cui inizialmente indosserò una giacca che poi riporrò nello zaino. Zaino leggero da montagna per borracce d’acqua e colazione, qualche corda e il mio fidato “Camillus”. Berretto con visiera ad alta visibilità. Radio trasmittente. Colazione.
Per la scelta del fucile ho poco da decidere, non ho carabine, e per il tipo di caccia che praticheremo, nel folto con i cani, mi sarà più utile utilizzare un’arma a canna liscia caricata a palla.
Avrei potuto scegliere di utilizzare il semiautomatico cal 12 Breda, fucile solido, dall’ottima meccanica e affidabile, ma il mio timore nell’affrontare il cinghiale mi fa prefigurare sempre il peggio, quindi penso a un possibile inceppamento dell’arma proprio mentre sono sotto la carica di un cinghiale magari ferito, pertanto opto per un basculante.
Scelgo il mio Rizzini in calibro 20 su cui monto strozzature ****/*** così da rimanere ampiamente sicuro nell’utilizzo delle munizioni a palla anche se sottocalibrate.
Per le munizioni faccio un salto in armeria e dopo un rapido confronto col mio armiere di fiducia, la scelta cade sulle Thrill Shock della B&P con palla da 24 grammi.
Si tratta di munizioni affidabili con 780 bar e 445 m/s di velocità. La forma elicoidale della palla mi ispira molto e la morbidezza del materiale con cui è realizzata è per me indice di alte capacità di arresto del selvatico, ovunque riesca a colpirlo. L’impennaggio utilizzato, poi, è in grado di rendere la traiettoria del proiettile stabile e teso. E questo aspetto è molto importante per la mia personale tranquillità psicologica.
L’indomani mattina ci incontriamo al solito bar e dopo un caffè e un ottimo cornetto, partiamo per la nostra destinazione. Durante il viaggio Massimo mi fa un breve briefing sul terreno che affronteremo, collina con ampelodesma, rovi e qualche boschetto di cespugli, e su come imposteremo la battuta. Io e lui staremo nel mezzo della battuta seguendo i cani mentre suo padre, il sig.Emanuele, rimarrà più staccato in alto cercando di individuare possibili ed eventuali vie di fuga dei cinghiali.
Avremo con noi tre dei suoi cani, segugi Posavatz, una femmina Pola e due maschi Sacar e Bruce, un cucciolone. Manterremo il contatto visivo camminando a fianco, ci staccheremo solo nel caso dovessimo intervenire per dare supporto ai cani e in quel caso ci terremmo in contatto con la radio.
La giornata si presenta soleggiata, anche se su queste colline il tempo cambia repentinamente come se fossimo in alta montagna. Dal fondo della valle sale un’aria umida e fredda, il cielo non è chiarissimo ma la visibilità è buona. Arrivati sul posto, prima di far scendere i cani, andiamo a fare un veloce tracciamento per vedere se nei dintorni ci sono passate fresche di animali.
Effettivamente le troviamo è un segnale molto positivo. Mentre siamo sul crinale osserviamo che nella parte bassa ci sono dei grossi roveti e boschetti molto intrigati che potrebbero ospitare cinghiali nelle ore diurne. Anche il versante di fronte, un’ampia distesa boschiva e ombreggiata, sembra essere un luogo molto adatto per i suidi.
Attivati i radiocollari e fatti indossare i corpetti protettivi ai cani, iniziamo la nostra avventura.
Faccio scivolare in canna le due Thrill Shock calibro 20, recitando a mente tutte le preghiere di buon auspicio che conosco, chiudo il fucile e metto in sicura.
Scendiamo dal ripido versante che abbiamo individuato portando subito i cani sulla traccia trovata poco prima. Ci troviamo a metà della costa e l’esperiente Pola, si muove già celermente con colpi di coda generosi e naso a terra che ci fanno ben sperare.
Ma tutto ad un tratto abbandona la pista a scendere e inizia a puntare verso l’alto accelerando la sua andatura, i due maschi la tallonano ai fianchi. Ci fermiamo un attimo per capire se si tratta di un cambio di direzione momentaneo o veramente ha individuato un’altra traccia.
Uno sguardo al satellitare e Massimo si accorge che i cani hanno preso un’altra pista in alto.
Ricomincia una dura e faticosa salita, tagliamo in diagonale la costa appena discesa. La pietraia è sdrucciolevole, le lastre umide e scivolose, l’ampelodesma è sufficientemente alta da infastidire ogni passo.
Tolgo la giacca che ripongo nello zaino e rimango con la compressor. Il satellitare indica i cani a 450 metri con distanza in aumento. Ci sembra adesso di aver sentito uno scagno.
Dobbiamo aumentare il passo. Comunichiamo via radio al nostro compagno rimasto in alto la situazione in modo che si possa portare prima di noi nei pressi dei cani. Iniziamo a sentire un abbaio continuo e cadenzato, dal satellitare notiamo che i cani sono fermi adesso, abbiamo coperto il chilometro e mezzo di distanza che ci separava in pochi minuti.
I cinghiali o il cinghiale sono bloccati, ci dobbiamo sbrigare prima che decidano di partire.
I posavatz e soprattutto Pola e Sacar conoscono bene il loro lavoro e abbaiano a distanza per non pressare i selvatici evitando così che vadano via. Arriviamo nella zona calda con il cuore che pompa a mille per la fatica e l’adrenalina.
C’è un avvallamento pieno di rovi, una depressione molto ampia che arriva fino al fiume nella parte bassa. Il padre di Massimo è piazzato ad una cinquantina di metri da noi in posizione elevata, io decido di posizionarmi poco fuori dalla depressione sempre sulla parte alta mentre Massimo scende più in basso per chiudere la strada verso il basso e provare, eventualmente a sparare a qualche capo.
Abbai e ringhi si susseguono, adesso sento anche i cinghiali grugnire sono più di uno, c’è un gran frastuono, hanno rotto l’accerchiamento.
Ne escono due dal mio lato, il cuore mi balza in gola, inizio a respirare faticosamente mentre cerco di regolare l’afflusso d’aria. Vengono fianco fianco nella mia direzione fanno una leggera deviazione e salgono alla mia sinistra miro il primo lascio partire il colpo, la Thrill shock parte bene, è morbida il rinculo è progressivo e non mi sposta troppo il fucile dalla linea di tiro così da farmi vedere chiaramente lo sbuffo di polvere 20 centimetri davanti al muso del primo, cerco di recuperare in seconda ma lo sbuffo è stavolta 50 centimetri a sinistra del secondo.
Padella clamorosa e morale sotto ai piedi.
I miei compagni sono molto delusi, neanche a dirlo, un’occasione d’oro sprecata. Massimo mi spiega che il tiro a palla, visto che non l’ho mai praticato, è molto diverso dal tiro con la munizione spezzata, qui, infatti, è d’obbligo di essere certi di aver imbracciato l’arma in modo assolutamente corretto perché variazioni di pochi millimetri si traducono poi in padelle come successo a me.
Nel frattempo i cani si sono lanciati all’inseguimento dei due fuggitivi. Il satellitare li da a 1,800 metri sul fondo dell’altra valle. Terminiamo la salita e iniziamo a riscendere l’altro versante.
I cani abbaiano nuovamente a fermo, stavolta appena arriviamo non abbiamo neanche il tempo di renderci conto di dove siano che percepiamo uno schianto potente seguito dal ringhio nervoso dei cani che si allontano di scatto, i cinghiali hanno caricato e puntano in alto. Massimo ne intravede uno e gli tira un colpo. Ma va via con i cani alle costole. Andiamo “sull’Anschluss”.
Chiare tracce di sangue indicano che l’animale è stato colpito, però le macchie non sono a terra ma sulle piante ad altezza spalla, forse è un colpo di striscio o ad una spalla.
Seguiamo le tracce e i cani.
Strada facendo sembra che le chiazze siano più grandi, aumenta la speranza per il ritrovamento anche se i cani adesso hanno allungato molto, ma potrebbero essere sulle tracce dell’altro. Dopo più di venti minuti di discesa a valle arriviamo all’incrocio con il fiume.
Adesso le tracce sono perse, il cinghiale ha attraversato il rio, troviamo il punto di guado e i cani sono andati pure in quella direzione. Riusciamo a passare ma non troviamo più tracce.
I segugi rientrano dopo mezz’ora circa. Ci fermiamo li facciamo calmare, controlliamo che non abbiano ferite, solo il cucciolone Bruce ha il giubbetto kevlar aperto in due punti per lo scontro con uno dei due.
Li rifocilliamo e iniziamo a tornare indietro riprendendo la prima valle. Sconsolati, perché abbiamo sprecato due belle occasioni, ormai, a mezzogiorno avanzato, pensiamo di non avere altre possibilità e forse è meglio cambiare anche zona.
Andiamo a verificare quell’angolo dove di mattina presto avevamo tracciato la presenza dei cinghiali. Stavolta i cani si mantengono a vista.
Pola aggancia una traccia nei pressi del roveto.
Agita la coda in modo nervoso pur tenendola alta ad uncino. Seguita dagli altri due molto attentamente si infilano nello sporco e iniziano a risalire il canalone. Riesco a seguire i movimenti grazie al campano. Alcune centinaia di metri più a monte sentiamo i cani abbaiare.
Ci allarghiamo allora sui due lati del canalone e risaliamo il più velocemente possibile.
Gli abbai aumentano e stavolta c’è molta confusione quando arriviamo in zona, sicuramente un cinghiale è schiacciato nel folto e non vuole uscire facendo brevi cariche sui cani. Si trova sul lato di Massimo che cerca un punto per sporgersi e scorgere qualcosa tra il folto dei rovi.
La tensione è palpabile, si unisce alla stanchezza della giornata e all’adrenalina.
Finalmente il mio compagno trova un varco tra la vegetazione, si inginocchia su uno sperone di roccia, lo vedo imbracciare e puntare verso il basso, seguo la linea immaginaria di mira e vedo anch’io i colori fluo dei giubbotti dei cani che vanno avanti e indietro tenendosi a distanza da qualcosa di grosso e scuro sul fondo.
Il colpo del fucile mi fa sobbalzare, la palla calibro 20 di Massimo raggiunge quella massa che adesso non si muove più, sento il ringhio soffocato dei cani che mordono la preda.
Il Re è morto!
Recupero delle spoglie e pulizia ci portano via un’altra ora e mezza.
Leghiamo le zampe e iniziamo a tirarlo su per la salita. Arrivati a metà ci fermiamo per riprendere fiato e mangiare qualcosa. Ci accorgiamo in quel frangente che i cani sono scomparsi. Dal satellitare vediamo che sono a 150 metri sulla nostra sinistra in mezzo ad una folta vegetazione.
Non facciamo in tempo a riprendere le corde in mano che sentiamo il primo scagno, seguito da altri. Lasciamo cadere quello che abbiamo in mano, tiro fuori il fucile dall’apposita sacca dello zaino e lo carico con due Thrill Shock. Vado diretto verso dove sento i cani. Massimo aggira da sopra.
Trovo un sentiero molto battuto lo percorro e mi trovo davanti un muro di vegetazione fatto di cespugli e “stracciabraghe” che discendono a cascata e che mi arpionano il viso e i vestiti appena provo ad avvicinarmi. Sento i cani caricare e i grugniti nervosissimi di un cinghiale.
Cerco la visuale giusta. Trovo uno spazio tra la vegetazione e lo vedo. Non più di 50 kg color tabacco con la criniera scura.
Tiene le spalle contro un grosso albero d’ulivo parzialmente abbattuto con le fronde annerite dal muschio, scheletriche che ricadono a ombrello rendendo l’atmosfera ancora più cupa. Il selvatico punta i cani pronto a caricare il primo che si fa sotto, per poi riparare tra le fronde fitte.
La luminosità inizia a calare celermente infilo le canne tra gli arbusti e le appoggio su una biforcazione, stabilizzando così il fucile. Ho la visuale chiara dei tre cani, Bruce è davanti a me sulla destra di Pola che si trova al centro mentre Sacar è alla sua sinistra.
Una carica del cinghiale fa scartare di lato Bruce, reputo che quello sia il momento propizio e sparo, nuovamente la palla parte e ne assaporo la spinta potente e progressiva ma in quel frangente il cinghiale si era girato per affrontare gli altri cani.
Ruzzola a terra ma prontamente si rialza, il colpo è arrivato allo stomaco, vedo il buco che i tessuti non riescono a richiudere e da cui inizia subito a fuoriuscire materia organica.
Memore di tutti i libri di Wilbur Smith letti, sulla pericolosità degli animali selvatici colpiti all’addome e sulla necessità di abbatterli il prima possibile per limitare le sofferenze e per evitare che sfoghino contro qualcuno tutta l’adrenalina scatenata, cerco di rilassarmi per replicare il colpo di grazia.
È il selvatico stesso che me lo consente perché, ferito, indietreggia poggiando letteralmente le spalle al tronco dell’ulivo cercando di coprire le ferite, entrata ed uscita del proiettile. Anche i cani capiscono che il cinghiale è ferito pesantemente e si fanno più sotto, nella luce incerta i corpetti fluo indicano chiaramente la loro posizione. Tra i rami dell’ulivo vedo chiaramente l’occhio porcino a 25 metri da me e stavolta centro la testa con un tiro teso e potente che la vegetazione frapposta non riesce a deviare.
Rientrato nel tardo pomeriggio a casa, molto stanco e abbastanza soddisfatto, vengo accolto da un festante ma molto deluso Lucky, il mio Breton, che mi odora da testa a piedi sentendo odore di caccia, ma non della “nostra” e quasi offeso per averlo lasciato dentro e compatendomi per “l’inutile giornata” trascorsa va a sdraiarsi sotto la fiamma della stufa.