Lo so, non sono mai stato un grande tiratore.
Uno di quelli, per capirci, che hanno la quasi assoluta certezza di colpire sempre e comunque e che, se solo una piuma si scopre un istante, sono in grado di indirizzare la botta con matematica sicurezza.
Non che io sia una schiappa totale, beninteso, ho avuto e continuo ad avere i miei momenti di gloria anche con volatili impegnativi: beccaccini, tortore, anatre... eppure con “lei” è diverso, con lei tutto si complica.
Sarà per quel sortilegio che emana dagli alberi spogli, per le cromie dell’autunno, il suono smorzato delle foglie cadute, non so. So solo che tutte le volte che ritrovo il cane in ferma, un fremito mi pervade e gli occhi cominciano ad appannarsi.
Non è emozione, giuro, qualcosa di diverso, infinitamente più complicato, qualcosa che mi costringe a volgere intorno lo sguardo, a raccogliere quasi in una foto tutto quanto, a voler diventare ramo coi rami, tutt’uno con la macchia e con “lei”, la strega dalle piume color desiderio.
Il fucile serrato, le pupille sgranate, le gambe tese, l’indice che tormenta il grilletto, la manica passata a più riprese sugli occhi che sempre allora si ricordano di lacrimare!
E “lei” lo sa.
Sa bene che nell’istante in cui scaturirà dal suolo, io sarò troppo estasiato o troppo imbambolato, fate voi, per dirigere bene i colpi. Quel fragore improvviso che morde il silenzio mi sconcerta ogni volta e azzera ogni cognizione di causa. E le fucilate viaggiano per non so dove, le pupille seguono inebetite quel volteggiare evanescente e il cane parte, rassegnato, a cercare la rimessa.
Chico si meraviglia sempre, le volte che il colpo finisce a bersaglio, e riporta le regine cadute con una punta di benevola ironia negli occhi umani. Ieri, in un angolo segreto dove tante volte le ho incontrate, il vecchio ne ha inventata una.
Furba, elusiva, nel pieno possesso di meravigliose facoltà elaborate dall’evoluzione. Tre volte, anticipando il mio arrivo, è partita a civetta davanti al naso del cane.
A Chico non restava altro che girare la testa, incrociare il mio sguardo e galoppare, ostinato, per una nuova ferma. Inutile, al silenzio del campano un fruscio appena accennato o un flash che dileguava. Poi, all'ennesima rimessa, “lei” aveva preteso troppo.
Tornata con un larghissimo giro quasi al punto di partenza, aveva scelto di arroccarsi sotto un ginepro basso, sicura di passare inosservata. Undici anni di esperienza e il gran naso del bianco-fegato l’avevano intercettata di nuovo, lungo una viottola di carbonai infilata da un alito di brezza.
L’uccello stavolta aveva retto, spiazzato o forse troppo sicuro dell’efficacia dell’ultimo rifugio. La posizione del cane inchiodato, il muso proteso a masticare l'aria, mi davano la certezza della sua presenza.
Non chiedetemi se il cuore abbia continuato a battere o taciuto… ancora il sudore negli occhi! Poi, mentre mi tergevo, il frullo mi aveva fatto trasalire.
Non sorpreso, però, in contemplazione e il piombo era partito, mortale, in un istintivo tiro d’imbracciata. La beccaccia stampata contro il cielo, poi rovinata tra i rami ad ali aperte, il riporto impeccabile, il piccolo cuore negli ultimi fremiti, un’ombra negli occhi liquidi.
«Non sono riuscita a incantarti, è andata come volevi…»
Respiro affannoso, odore metallico, rosso, di sangue:
«Puoi crederci, se ancora potessimo giocare cento volte, non mi avresti più, fragile, impacciato, imbelle profanatore del bosco! »